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Scrivici |1 - Storia breve e sfortunata del Caracciolo
- Un superstite racconta ogni dettaglio -
Pagina di "Aria alla rapida!..."(N.35 del 1998) con l'immagine del Caracciolo in costruzione (a sinistra) in una foto di Aldo Fraccaroli.
Ringraziamo Carlo Sitzia per il cortese contributo alla storia, Celestino Biagini per la precisa testimonianza, e la Redazione di "Aria alla rapida!..." per il materiale fornito.
La vicenda di un sommergibile in guerra
Fra i molti sommergibili affondati nel secondo conflitto mondiale, alcuni ebbero una vita operativa molto breve, senza possibilità di lasciare tracce profonde nella Storia. Tra questi vi fu il sommergibile Caracciolo che venne affondato a soli sei mesi dall'entrata in servizio, alla prima occasione offensiva.
Era un grande sommergibile, destinato a impieghi oceanici, per stare almeno sei mesi in caccia di mercantili, che invece venne impiegato in Mediterraneo per trasporto di materiali e personale, sotto le pressanti esigenze della guerra terrestre in Nord Africa. Ma si trovò per caso dentro un convoglio nemico, occasione d'attacco difficile da ignorare...
Il figlio di Giuseppe Sitzia, direttore di macchina, superstite del Caracciolo, ha trovato il nome del padre nei documenti pubblicati su Trentoincina e ci ha fornito alcuni commenti sui fatti, già esposti su questo sito nelle pagine del Caracciolo dedicate a Guido Sellone (caduto) e Gaspare Salerno (sopravvissuto).
“Mio padre, all’epoca della sventurata missione, era stato da poco tempo nominato direttore di macchina del Caracciolo : lui non amava ricordare la vicenda e i cinque lunghi anni di prigionia nei campi inglesi in India, ma il succinto racconto che ci ha fatto conferma quanto raccontato dal capo Salerno con alcune specificazioni (peraltro desumibili) che vorrei sottoporre alla vostra attenzione:
- effettivamente il sommergibile non era al 100% della sua efficienza operativa ed inoltre, considerata la missione assegnata, aveva un armamento molto ridotto, inadeguato ad azioni offensive,
- come ricorda anche il capo Salerno “gli ordini non erano di attaccare” ma di svolgere il trasporto (benzina all’andata, personale italiano e tedesco al ritorno) nel minor tempo e con i minori rischi possibile,
- del resto se avesse terminato la missione il Caracciolo si sarebbe dovuto trasferire a Betasom, sede presso la quale mio padre era stato assegnato,
- effettivamente prima di abbandonare il sommergibile, furono eseguite le procedure di allagamento per l’auto affondamento,
- la permanenza in mare di mio padre è stata molto più lunga e considerato il clima invernale è un miracolo che si sia salvato; dopo il salvataggio venne smistato in Egitto e da lì in India.
Da quanto sopra deduco che mio padre considerasse criticamente la decisione di attaccare il convoglio nemico in quelle condizioni non ottimali, ma per la verità devo dire che non ha mai voluto confermare esplicitamente questo assunto, del resto diceva scherzando (amaramente) “se non fossimo affondati in mediterraneo, probabilmente tu non saresti nato”.
Ma cosa è stato pubblicato nella saggistica specializzata?
La fine del Caracciolo è citata ovunque, senza fornire molti dettagli, con varie differenze, mentre alcuni informazioni chiave mancano del tutto. Vediamo.
"Sommergibili Italiani" dell'Ufficio Storico della Marina Militare (USMM):
In sintesi, il sommergibile con personale in transito a bordo (non si dice quanto) attaccò in superficie mercantili e scorta di un convoglio, venne sottoposto a caccia antisom che provocò avarie e lo costrinse a riemergere. Fu colpito dall'artiglieria mentre procedeva all'autoaffondamento. Vi furono 16 caduti dell'equipaggio, incluso il Comandante e alcuni militari. 53 superstiti vennero salvati. La foto sul testo è del battello in allestimento.
"Uomini sul fondo" di Giorgerini:
Nessun cenno sul personale di passaggio, l'emersione avvenne per i danni, viene indicata la cifra di 53 superstiti
"Guerra negli abissi" di Nassigh:
Non specifica cifre sulle perdite e si allinea a quanto indicato dall'USMM. Parla di un “ritorno ai compiti offensivi”, cioè combattere invece di trasportare.
"Siamo fieri di voi" di Capone (ediz.1996):
Segnala personale italiano e tedesco a bordo, ma non ne indica numero e perdite. 53 superstiti raccolti. Il Comandante sarebbe affondato (forse di sua volontà) con l'unità. I caduti furono 14 dell'equipaggio più due ufficiali.
"Sommergibili in Guerra" di Bagnasco e Rastelli:
Mostra la foto mimetica e con torretta tedesca (che invece l'USMM attribuisce al Cagni), parlando di “numeroso personale di passaggio”, senza indicare le cifre relative.
"Bandiera di combattimento!" di Arena:
Tra altre informazioni, spicca la citazione di 22 ufficiali inglesi prigionieri, periti nell'affondamento.
"Cento sommergibili non sono tornati" di Meneghini:
E' il più prodigo di informazioni. Parla di addestramento non completamente a punto, ordini di “astenersi da qualunque azione offensiva”, una trentina di militari a bordo tra cui il generale Lami, tre ufficiali e tre feriti. Nell'azione vi sarebbe stata difficoltà a operare per l'eccessivo affollamento e la riemersione fu dovuta ai danni, seppure con la speranza di eclissarsi. Si parla di mitragliamento, per cui sarebbe caduto il Comandante, assieme a 8 sottufficiali. Mancante il 20% dell'equipaggio e del personale trasportato di cui vi furono solo tre superstiti (due italiani e un tedesco).
Riassumendo, manca ovunque l'esatto numero dei caduti, forse per incertezze sul numero dei passeggeri occasionali a bordo. Come e perché sia scomparso il Comandante non è chiaro. Quasi tutti parlano di uso delle artiglierie e solo in un caso di mitragliamento. Insomma, non è facile capire cosa sia avvenuto esattamente in quei momenti, salvo la sostanza finale dei fatti, facilmente rilevabile da parte britannica (con il conteggio dei superstiti).
Ci si dovrebbe affidare dunque ai ricordi dei naufraghi, protagonisti ma anche vittime impegnate nella sopravvivenza, che non erano in condizioni ideali per rilevare tutto quanto e dircelo. Molti dovettero ritenerla una brutta esperienza, che dopo la prigionia non ebbero voglia di rammentare e raccontare. Ormai, dopo tanti anni è anche difficile trovare testimoni in grado di raccontare qualcosa di nuovo.
Eppure, stimolati dalla richiesta, abbiamo trovato una interessante testimonianza, completa e dettagliata, pubblicata nel 1998 su “Aria alla rapida!...”, pubblicazione dei sommergibilisti ANMI di Milano, che qui riproponiamo con l'autorizzazione della Redazione.
Disegno del Caracciolo, con la torretta compatta di tipo tedesco e la livrea mimetica.
Testimonianza di Celestino Biagini, di Villafranca in Lunigiana
Fui trasferito dalla Scuola Sommergibili di Pola il 3 gennaio 1941 e destinato all'imbarco sul Caracciolo, nuovo di zecca e ancora in allestimento a Monfalcone.
Tra giugno e luglio, al battello fu sostituita la torretta con una simile a quella degli U-boot tedeschi.
In autunno eravamo pronti e, al comando del C.C. Benedetto Luchetti, partimmo per Fiume per effettuare alcuni lanci di siluri.
Arrivammo a Fiume nel pomeriggio di un giorno di ottobre e qui cominciarono i primi guai.
Entrando nella darsena, incocciamo il cavo di manovra delle ostruzioni e ci volle parecchio tempo per liberare il battello.
Poco dopo il comando del Caracciolo passò al C.C. Alberto Agostini, proveniente dal Mocenigo.
Al rientro dalla prima uscita, mentre ci dirigevamo all'ormeggio manovrando con i motori elettrici, andammo a sbattere contro la banchina. Circa tre metri della prora furono danneggiati, tanto che la sera stessa, dopo aver sbarcato nafta, munizioni e siluri, entrammo in bacino. Vi restammo una settimana, durante la quale la prora fu sostituita con una nuova giunta da Monfalcone.
Usciti dal bacino, imbarcammo nuovamente tutto il materiale, ma mentre l'ultimo siluro scendeva nella camera di lancio poppiera, un rimorchiatore che trascinava una rugginosa corvetta greca ci venne addosso spezzandoci una pala dell'elica di dritta. Fummo costretti a scaricare nuovamente ogni cosa e rientrare in bacino per sostituire l'elica.
Durante la permanenza nel piccolo cantiere di Fiume, dove stava ultimando l'allestimento il cacciatorpediniere Da Mosto, eseguimmo le prove di lancio. Il Comandante Agostini fu insignito della Croce di Ferro da parte di un Ammiraglio tedesco e fu sostituito dal C.C. Alfredo Musotto proveniente dal Glauco. Poco dopo ci trasferimmo a Pola per ultimare i tiri e collaudare lo scandaglio, l'ecogoniometro e altre apparecchiature.
Il 29 dicembre partimmo per Taranto, dove arrivammo il mattino del 1° dicembre. Ricordo che Maridipart non voleva aprire le ostruzioni perché il nome del Comandante non era conosciuto, ma risolto questo inconveniente ci ormeggiammo finalmente alla banchina sommergibili, dove iniziammo a imbarcare il carico di rifornimenti che dovevamo portare in Africa. Nelle camere di lancio, nei doppifondi e nelle latrine, stivammo taniche di benzina da 20 litri, mentre sul pagliolato del quadrato ufficiali sistemammo le cassette di munizioni. Il resto del carico, ricevuto dai Tedeschi e che dovevamo riconsegnare a loro in Africa, era costituito da sacchi di gallette e pasta.
Il giorno 3 uscimmo in Mar Grande per effettuare delle prove di immersione e si verificò una nuova avaria: un dado dello scarico dei motori termici si staccò e finì tra il seggio e la valvola del valvolone di scarico. Una certa quantità d'acqua entrò nei motori e nel pozzetto dell'olio di servizio, inquinando tutto il circuito.
Riparata l'avaria, il giorno 5 alle 8 scostammo dalla banchina dell'arsenale per ormeggiarci alla boa in Mar Grande, da dove salpammo alle 14 per iniziare la missione.
Gli accenni a una generica "impreparazione" del battello trovano qui spiegazione: si verificò una sfortunata sequenza di incidenti e avarie, sintomi di difetti originari oppure di una difficile messa a punto in tempo di guerra. Ad essa poteva sommarsi anche il problema dell'addestramento dell'equipaggio. Inutile dire che un sommergibile alla prima missione, con un equipaggio non ancora affiatato, non era in condizioni adatte per essere riempito con carichi di materiale estraneo o una folla di persone inutili. Vedremo cosa succederà nell'assetto subacqueo, sotto le bombe.
Bengasi, Derna, Bardia e i movimenti del Caracciolo nel Mediterraneo orientale. Cartine della Consociazione Turistica Italiana (1940).
Missioni di trasporto e decisione fatale
In origine dovevamo raggiungere Bengasi costeggiando la Grecia. Arrivammo il giorno 7, ma di lì ci mandarono a Derna e poi a Bardia passando davanti a Tobruk, che era in mani nemiche.
Poiché navigavamo in superficie senza bandiera, alle 9 circa del mattino dell'8 dicembre fummo attaccati per errore da un aereo tedesco, che se andò dopo averci riconosciuto. Ci immergemmo e sostituimmo con flange cieche le valvole d'avviamento, che si erano bruciate a causa del combustibile utilizzato, normale nafta per caldaie.
Restammo in immersione fino alle 13 e dopo essere emersi, fummo attaccati alle 14 da un altro velivolo, questa volta inglese, che dopo averci mancato per poco con un siluro, cominciò a mitragliarci.
Rispondemmo con le nostre 13,2 mm, ma una delle armi si inceppò. Il mitragliere passò all'altra, lasciando che quella inceppata brandeggiasse col moto ondoso, senza cioè fermarla in posizione verticale, normale alla chiglia.
Il guardiamarina Milos Baucer, di Fiume, andò a poppa della torretta per alzare la bandiera, ma mentre passava davanti alla mitragliera inceppata, da questa partì il colpo in canna che gli portò via di netto la testa. Il suo corpo fu portato in camera di manovra, avvolto in una coperta e appeso in torretta, dopodiché ci immergemmo.
Dovevamo tornare in superficie al tramonto, ma decidemmo di restare giù per altre 24 ore perché sopra ci davano la caccia, anche con torpedini a rimorchio. Il cavo di una di queste urtò nel cavo aereo che sporgeva fuori bordo di circa 50 cm e fece un rumore che ci sembrò assordante. Riemergemmo la sera del 10 e, dopo una breve preghiera recitata dal Comandante, il povero corpo di Baucer, appesantito da un colpo da 100/47, fu affidato al mare.
Baucer viene spesso conteggiato fra i caduti nel combattimento , ma avrebbe perso la vita prima, nello sfortunato incidente del colpo in canna, che ci ha lasciato molto impressionati per il realismo con cui è tratteggiato, compresi gli aspetti concreti della sepoltura in mare su un sommergibile affollato in missione. Un proiettile da 100/47 pesava 13,8 Kg.
Arrivammo a Bardia verso le 18, all'ora del rancio serale: pasta in brodo, patate lesse con tonno, frutta sciroppata e vino. Appena attraccati, fummo invasi dai soldati tedeschi e italiani che avevano il compito di scaricare il materiale e che nel frattempo, essendo Bardia assediata, cercavano acqua e viveri. Un tedesco recuperò una gamella, la portò alla bocca e ingoiò quasi tutto il cibo che conteneva, poi mi diede due lettere, consegnandomi anche 2 lire e 80 centesimi per impostarle in Italia.
Dovevamo ripartire alle 23, l'ora in cui si alzava la luna.
Prima di salpare imbarcammo un generale del Genio (si chiamava Lami), sei tedeschi feriti dallo scoppio di un pezzo da 88 mm (di cui cinque molto gravi), un pilota della Luftwaffe che era caduto dietro le linee inglesi e, pur avendo perduto un occhio, era riuscito a raggiungere quelle italiane, una ventina di brigadieri dei carabinieri e anche due tecnici di artiglieria civili. In tutto c'erano a bordo un centinaio di persone.
Gli ordini erano di puntare su Creta, sbarcare il personale, caricare benzina e munizioni e tornare a Bardia. Durante la navigazione con mare forte, verso le 2, finimmo in mezzo a un convoglio diretto ad Alessandria. Il Comandante decise di attaccarlo in superficie.
Trasportare o attaccare?
Bisogna soffermarsi un momento sulla scelta di attaccare, nonostante gli ordini ricevuti.
La decisione del Comandante di passare dal ruolo logistico all'azione aggressiva, esponeva a gravi rischi una missione partita con altri scopi e ordini. Peraltro riportava il sommergibile al vero scopo per cui era stato costruito, perché bisognava fare la guerra e non solo rimediare in modo inefficiente all'incapacità logistica.
Le necessità di un trasporto che passasse inosservato, attraverso il Mediterraneo, sono comprensibili. Tuttavia era piuttosto assurdo usare come mezzi di trasporto preziosi sommergibili con i loro equipaggi addestrati, anche perché tante missioni di sommergibili trasportarono alla fine meno del carico di una sola nave. Come dire che gli ordini di “non attaccare” potevano essere sensati ma discendevano da una strategia discutibile, pensiero inevitabile nella mente di chi comandava un sommergibile.
Certo, con numerosi passeggeri il rischio di attaccare pesava di più, ma la rara possibilità di infliggere al nemico la perdita di navi in Mediterraneo era forse più importante. Comunque il rischio c'era stato lo stesso per il solo fatto di navigare, tra attacchi aerei e mine. Se poi l'unità si era trovata dentro al convoglio, perché fuggire senza tentare? Come sarebbe stato giudicato proteggersi dietro ai prudenti ordini formali? Se l'esito di quella decisione fu disastroso, è difficile giudicarla a posteriori.
Nella testimonianza di Biagini si delinea anche il notevole numero di passeggeri imbarcati. Se c'erano circa cento persone a bordo, vuol dire che morirono quasi 50 persone, non 16. Vedremo nella prossima puntata altri dettagli della testimonianza, che spiegano come potrebbe essere avvenuto: con il mitragliamento dei naufraghi. Vedremo come si svolse il combattimento e autoaffondamento del Caracciolo.
Continua...
I testi indicati nella prima parte della pagina sono riportati con maggiori informazioni anche nella Bibliografia (accesso in alto a destra nella pagina).
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